il cielo da sotto

Questo è un porto.
Qui arriva gente di continuo, metti il naso fuori e li vedi brulicare come formiche.
Alcuni hanno fame ed escono da containers colorati, nottetempo, per non dare troppo nell’occhio, non si sa mai.
Altri sono lo specchio dell’indifferenza, in questo luogo o altrove fa lo stesso, basta andar via, lasciare soltanto un posto per un altro.
E noi siamo qui per forza, dove l’essere qui o lì ha ancora valenza, siamo qui per rimanere e per portare altra gente, per parlare e far parlare tutti gli altri, per stare a guardarci negli occhi come babbei.
O per sollevare il bicchiere e fare in modo che anche tutti gli altri lo sollevino, per poi pronunciare le fatidiche sei parole del brindisi:
"a sta belìn de vitta, figgieu…"
"a sta belìn de vitta" ripetono in coro gli amici, appoggiati al bancone…
Brindiamo a questa cazzo di vita, puttana, dolce, colorata, che scorre sul filo.
Che ti prende per il collo e ti fa strisciare la faccia a terra.
Ti fa mangiare tonnellate di polvere.
Poi ti spara in alto, sempre più in alto… e non ci sei abituato, cazzo, certo che no!
E tutti sono piccoli laggiù, quanta gente puoi vedere, quante cose ignoravi… adesso si dipanano ineccepibilmente sotto il tuo sguardo elevato.
Una dopo l’altra…
"you’re on the Big Wheel, baby!"
Sei sulla grande ruota del Luna Park, baby, te la stai godendo, feel the game!!!
Poi scendi.
O ti fanno scendere.
E ti riabitui a vedere il cielo da sotto.
Perchè così è la vita…

E anche stanotte alzo gli occhi, cerco se c’è un buco per uscirne fuori, questo strano cielo "dei vicoli" che poi è solo una striscia scura tra due gronde sottili.
E ci sono le stelle, in questo cielo-fenditura?
Belìn se ci sono, basta immaginarle.
Ma la città è troppo luminosa per poter far chiarezza nei segreti del cielo-fenditura, bisogna ampliarlo, salire almeno fino a Righi, poi sdraiarsi sul muretto…
Girarsi una paglia…
E guardare…
E’ come far l’amore con una bella donna che non avrai mai, quella che ti sfiora sull’autobus, quella che è davanti a te dal panettiere.
Quella che è seduta dietro sulla moto, anche se stai tirando a bestia, che ti si appende al collo e ti fa quasi barcollare.
Perché il cielo è dentro di noi, è spesso anche ad un solo centimetro da noi, ma a volte non ce ne accorgiamo, siamo disabituati a guardarlo con gli stessi occhi di quando s’era bambini, ci voltiamo di rado e di malo modo.
Digrignando i denti.
Perché non abbiamo più fame.
E rientriamo all’alba nei nostri containers di pietra e mattone, tutti colorati di grigio, o colori pastello, con ancora tra le dita il profumo sublime di quella donna che non avremo mai.
Lasciando fuori il mantello scuro che copre i nostri sogni più leggiadri o neri come liquame, senza aver trovato, nemmeno stanotte, il classico buchino per uscirne fuori.
Risalendo lentamente per la mia via, guardo la giustapposizione ormai imprecisa delle file di mattoni, contornate da ciottoli affogati nella malta.
Tutta la mia Genova è così, è proprio tutta a scale, come dice sempre l’Incastratore di Parole.
E se ci penso bene anche la vita è così.
Sali la rampa, anche se costa fatica, sudi, inciampi nelle pietre sporgenti, imprechi.
E ti viene anche il fiatone.
Poi arrivi quasi alla sommità, ti volti e vedi il tuo porto, il mare e, se ti riesce, anche il cielo.
Anche quando l’avere questo lenzuolo greve sulla testa fa paura.
E c’è un solo fatto empiricamente certo: alla scala della vita non arrivi mai in cima, la fatica ti vince prima.

Ma allora… un attimo solo… forse stavolta qualcosa può attendere…

Anche se la notte mi trascina all’infima plastica della tastiera e sento che sta per vincermi, il suo oblio ristoratore finalmente resuscita i sogni sfilacciati che vorrei avere.
In realtà so perfettamente che si rimescoleranno tutte le carte, che ogni cosa prenderà la sua strada, ineluttabile.

Un attimo, uno solo…
Voglio guardare fuori, cogliere quel che succede al di là delle braccia degli alberi del giardino, squassati dal libeccio.
Mentre inizia a piovere, indolentemente, poi sempre più forte e tutto si fa lago, acqua che trascina, fango, io rimango col naso attaccato al vetro, come i bimbi.
"a amià quellu mussa de tempu"
(lo diceva mia nonna)
Sento il suono della pioggia, che copre tutti quelli della città.
Se fossi più giovane mi importerebbe assai poco di questo diluvio improvviso, andrei in giro, a vedere come vive la sua esistenza chi di pioggia si nutre.
Ogni odore di fango, terra bagnata, di alberi e fiori che si tendono come mani per raccoglierla, prima che cada al suolo, ognuno di questi odori lo farei mio, lo vorrei addosso, asciugato ogni volta invano dal rabbioso soffio del vento.
Per poi bagnarmi ancora di luce e guardare le ondate di gocce riflesse dai lampioni, milioni di striature chiare che sembrano un telo, un sipario ondulato.
E neppure una zanzara a mordermi per riportarmi giù, neanche un provvidenziale tafano.
Allora esco nuovamente, sono invecchiato abbastanza per ritenermi giovane.
E non ho mai lasciato che qualcuno mi facesse diventare come voleva lui.
O come non volevo io.

Voglio proprio vedere questo mare, da qui ne sento solo l’odore, mi è celato da tutte quelle brutte case venute su negli anni venti.
Voglio randagiare fradicio tra i brutti edifici di Renzo Piano e le belle antiche facciate della Ripa, guardare i cefali che vengono fin sotto la banchina attirati dalle luci.
Nella penombra del fondale sembrano enormi girini.
Enormi, stupidi girini…
Starmene lì come un ebete a farmi incantare dal movimento delle luci sull’acqua, dove sembra riflessa una città eguale e simmetrica alla mia, che però si muove di continuo.
Fluttua…
Mentre la mia è ferma, silente. Troppo.
Farmi cullare dal tintinnio degli alberi delle barche ormeggiate, sentire tutti quei piccoli suoni che se ti concentri bene riesci anche a discernerli uno per uno.
E tutti insieme fanno il rumore del mondo.

Per poi finire nel solito bar, col solito amico barista, col solito bicchiere di Nero d’Avola.
A parlare di moto e strade impercorribili da percorrere.
Di figli in arrivo o già arrivati che rompono simpaticamente i maroni.
Dei vecchi passatempi…
Seguire le scie delle belle signore dei vicoli, che ti appannano la vista quei tre secondi buoni, come veli profumati, che sanno di casa.
O magari attaccarmi come un deficiente al campanello di Mr. Jones, elemosinandogli il bicchiere della buonanotte.
Per poi risalire, ancora una volta, la strada di casa mia, col riflesso dei lampioni sui mattoni viscidi, i ciottoli che conosco ad uno ad uno, che ora sembrano saponette, guai a camminarci sopra.
All’improvviso un bagliore, un boato e la luce va in tilt.
Adesso si che è buio, non si vede una beata fava, ma debbo salire, salire ancora, come un calvario personalizzato che mi tumula fra le mie quattro mura.
E sogno di avere molti compagni di viaggio.

O semplicemente nessuno…

meno uno… più uno

Strani mesi

strano tempo che passa

qui da me siamo sempre in eguale numero

meno uno, più uno

il senso quadra

anime che si sfiorano solo per pochi minuti

forse a modo loro si sorridono pure

lacrime di occhi ormai stanchi

occhi che hanno guardato il mondo per cento anni

occhi che iniziano appena a scrutare

quel che circonda la distanza bocca-seno

non riesco a rassegnarmi alla regola del chi va, chi viene

dovremmo essere semplicemente eterni

ma sai che palle

esserlo.